Ogni mattina, seduta sul treno freddo della metropolitana, mi diverto a osservare sbirciando da sopra il libro una bambina di due anni: traboccante di una vitalità che solo i piccoli hanno a quell’ora presto, intenta a declamare seria gli importanti discorsi tra i suoi Barbapapà, concentrata a rimboccare da brava donnina la coperta al fratello seduto sul passeggino cantandogli anche una squillante ninna nanna perché «fuori è buio e quando c’è buio i bambini piccoli devono dormire», oppure impegnata a versare nelle mani del padre un bel bicchiere di Coca Cola con tanto di cubetti di ghiaccio, solo un bicchiere però perché la Coca Cola fa male.
Ogni mattina osservo incantata il portento di una piccola che dà la parola al suo mondo fantastico, al minuscolo e sconfinato universo in cui trasferisce la realtà.
Stamattina quella bambina non c’era. Il suo posto sul treno era occupato da un’altra bambina, un’esplosione di ricci biondi e il blu degli occhi che spiccava sul colorito pallido. Le sue mani hanno attirato la mia attenzione: si muovevano agitate, su giù destra sinistra. Non erano movimenti casuali, però: ogni gesto esprimeva una parola, un concetto. E la sua bocca accompagnava, spalancandosi e sorridendo, quel racconto concitato. Una bambina immersa nel silenzio. In un frastuono senza suoni. L’ho immaginata impotente a chiedere aiuto; l’ho immaginata incapace di avvertire un pericolo se non quando è troppo tardi. Ho immaginato il suo mondo svuotato di rumori eppure – a guardarla nei suoi gesti – ricolmo di storie da raccontare.
Ho sentito una lacrima sgorgare dagli occhi. Every tear is a waterfall, cantano i Coldplay. In questo caso sì, è proprio così.
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