«Devo affrontare questa cosa da
sola, lo capisci, sì?». In piedi di fronte alla panchina di marmo, A. alza la
voce.
«Non urlare. E non sei sola».
C. se ne sta seduto sulla spalliera della panchina, i gomiti appoggiati sulle ginocchia,
lo sguardo rivolto a terra.
«Lo so, ci sei tu». A. ha
voglia di piangere. Si sente confusa, frastornata dagli eventi che le affollano
i pensieri di giorno e i sogni la notte. «Ho paura che sia un’illusione». Gli
occhi le bruciano per lo sforzo di respingere le lacrime.
«Smettila di frignare, cazzo».
C. si toglie la sigaretta di bocca, si alza e prende A. per le spalle. La scuote:
«Smettila di essere debole. Non puoi permettertelo. Devi restare lucida». C. la
fissa. Le sue parole le perforano la mente. Come sempre. E come sempre, lui ha
ragione.
«Ti voglio bene» gli dice.
«Anche se ti ostini a mettere sto profumo del cavolo».
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